Il diritto vivente non è fonte di diritto. I giudici devono rispettare la sequenza dell’art. 12 preleggi: in difetto, si espongono a sanzioni disciplinari

Non sono fonti di diritto:

1) il “diritto vivente”, entità sconosciuta alla normazione sulla normazione della Stato – comunità, e priva di riscontro nelle disposizioni della Costituzione della Repubblica Italiana, nel testo approvato il 27 dicembre 1947 e nelle Leggi Costituzionali emanate ai sensi dell’ art. 138 della Costituzione;

2) la dottrina, quando non provveda a fornire interpretazioni delle fonti di diritto rispettose dei criteri di interpretazione della legge;

3) gli obiter dicta e le argomentazioni contenuti nelle sentenze e negli atti dell’autorità giudiziaria;

4) le sentenze delle Autorità giudiziarie di merito e legittimità che non provvedano ad interpretare le leggi e gli atti fonte di diritto secondo le regole interpretative poste dalla legge;

5) le sentenze della Corte Costituzionale che non abbiano i requisiti previsti dall’ articolo 136 della Costituzione della Repubblica Italiana.

Ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile (c.d. preleggi) del 1942, che il giudice di ogni ordine è grado è obbligato ad applicare sia in forza dell’art. 101 comma 2 della Costituzione (“I giudici sono soggetti soltanto alla legge”) che per effetto dell’art. 113 c.p.c. (“Nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto…”), “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro significato che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.”; mentre ai sensi dell’art.1 delle c.d. preleggi rubricato come “Indicazione delle fonti”, “sono fonti del diritto: 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) le norme corporative (disposizione abrogata); 4) gli usi.”.

Ne consegue che nell’interpretare la legge il giudice deve innanzitutto cercare la c.d. interpretazione dichiarativa (lex tam dixit quam voluit), la “regina delle interpretazioni”.

Il risultato del procedimento interpretativo può condurre ad una efficacia precettiva maggiore rispetto a quella fatta palese dalla interpretazione meramente dichiarativa, ed allora ci si troverà al cospetto della c.d. interpretazione estensiva che estende la portata precettiva della norma ad un caso che solo apparentemente ne sembra escluso (lex minus dixit quam voluit ); ovvero ad una efficacia precettiva minore rispetto a quella palesata dall’interpretazione dichiarativa , dandosi così vita alla c.d. interpretazione restrittiva ( lex plus dixit quam voluit ).

Alla interpretazione estensiva si aggiunge, rimanendone distinta, la c.d. interpretazione analogica (analogia legis), che rappresenta una forma di autointegrazione con cui l’ordinamento giuridico, in omaggio al dogma della completezza ed esaustività delle disposizioni normative vigenti, consente di applicare ad una fattispecie apparentemente priva di espressa disciplina una norma dettata in materia affine.

Il procedimento analogico è disciplinato dall’art.12 comma 2 delle disposizioni preliminari al codice civile, il quale ne subordina l’applicazione ai soli casi in cui una controversia non possa essere decisa con una precisa disposizione, consentendo in tal caso l’applicabilità di disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; ne consegue che presupposti per il ricorso alla analogia legis sono: 1) l’assenza di una disposizione normativa che espressamente disciplini il caso da giudicare ai sensi dell’art. 12 comma 1 delle preleggi , con conseguenziale impossibilità di giudicare; 2) la presenza di disposizioni normative in materia affine ; 3) l’identità di ratio tra il caso da giudicare primo di normazione e la norma che regola la materia affine (ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio ).

E’ così evidente come il ricorso all’interpretazione analogica possa avvenire solo come extrema ratio, quando una controversia non può in alcun modo trovare soluzione positiva per la esistenza di un vero e proprio vuoto normativo, mentre giammai potrà farvisi ricorso per una mera opzione ermeneutica e, meno che mai, per petizione di principio puramente ideologica dettata dall’insoddisfazione per l’assetto di interessi risultante dalla incompletezza della previsione normativa, non essendo compito del giudice porre in essere atti liberi nel fine, funzione, questa, propria dell’Organo Costituzionale che manifesta direttamente la Sovranità Popolare mediante la rappresentanza del Corpo Elettorale ai sensi degli artt. 1, 55 e 70 della Costituzione.

Non può farsi ricorso alla analogia quando non vi sia alcuna esigenza di colmare ineliminabili vuoti normativi, non potendo questa ritenersi sussistente ogni qualvolta la parte riscontri l’assenza di una norma positiva che consenta di ritenere fondata la propria domanda, diversamente, come ben si comprende, l’analogia legis venendo invocata in forma pressocchè generalizzata da tutti coloro i quali avanzino pretese non sorrette da una espressa disposizione normativa che ne coonesti la fondatezza ed accoglibilità, così trasformando surrettiziamente in una “lacuna normativa” quella che invece è null’altro che una precisa scelta del legislatore (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).

La chiarezza e non equivocità del dettato normativo, esclude pure il ricorso alla c.d. interpretazione teleologica, ammissibile solo in caso di palese contrasto tra il significato letterale manifestato dalle parole secondo la connessione di esse, ed il sistema normativo, e non nella diversa ipotesi in cui il predetto significato letterale tradisca le aspettative di tutela di determinati interessi ritenuti meritevoli sulla scorta di pur apprezzabili esigenze socialmente avvertite come tali, non potendosi attribuire ad una disposizione normativa un significato più ampio di quello legittimamente attribuibile in forza della interpretazione letterale al dichiarato fine di ampliarne l’ambito di operatività per ritenute prevalenti esigenze di tutela di interessi avvertiti come preminenti, essendo questa una funzione tipica dell’atto legislativo, libero nel fine in quanto espressione della sovranità popolare attraverso l’istituto della rappresentanza articolato nelle assemblee legislative.

Da ultimo si colloca la c.d. analogia iuris, prevista anch’essa dal comma 2 dell’art. 12 delle preleggi: “se il caso rimane ancora dubbio si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.”

Trattasi dei principi fondanti dell’ordinamento, desumibili dall’esame comparativo di più disposizioni normative di vario ordine e grado nella gerarchia delle fonti del diritto, in cui si esprime la razionalità intrinseca del sistema e si manifesta il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, che si assume con valenza assiomatica capace di esprimere ex se la regula iuris idonea alla definizione di ogni possibile situazione.

Deve invece essere esclusa la possibilità che il giudice, di ogni ordine e grado, nell’apparente esercizio del potere di interpretare ed applicare la legge ne crei una nuova , o modifichi o abroghi la legge preesistente.

L’art.70 della Costituzione dispone: “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”, così attribuendo espressamente la Costituzione il potere di porre in essere atti aventi forza ed efficacia di legge e costitutivi della cd normazione primaria dell’ordinamento.

Siffatto potere, che la Costituzione ha voluto riservare agli Organi Costituzionali direttamente investiti dal suffragio elettorale in cui si manifesta la Sovranità Popolare ai sensi dell’art. 1 della Costituzione (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”), può essere modificato o attribuito ad altri organi soltanto con Leggi costituzionali come espressamente sancito non solo dall’art. 139 della Costituzione, ma anche dall’art. 2 delle disposizioni preliminari al codice civile che dispone: “La formazione delle leggi e l’emanazione degli atti del Governo aventi forza di legge sono disciplinate da leggi di carattere costituzionale.”

L’impossibilità giuridica per il giudice di abrogare o modificare la legge esistente è sancita espressamente dall’art.15 delle disposizioni preliminari al codice civile ( cd preleggi ) che sotto la rubrica “abrogazione delle leggi”, così dispone: “le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore.”

La distribuzione della funzione normativa è completata dall’art. 101 comma 2 della Costituzione che disponendo “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, esclude in conformità all’art. 70 già esaminato che il giudice possa crearla ex novo; e dall’art. 1 delle cd preleggi (disposizioni preliminari al codice civile) che sotto la rubrica “Indicazione delle fonti” disponendo “sono fonti del diritto: 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) le norme corporative (disposizione abrogata); 4) gli usi.”, non contempla tra le fonti del diritto le sentenze della Suprema Corte di Cassazione e di tutti gli altri giudici che, pertanto, non possono creare, modificare, abrogare la legge; e dall’art.113 c.p.c. che sotto la rubrica “pronuncia secondo diritto” dispone “Nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto…”), così confermando che la sentenza del giudice di ogni ordine e grado non costituisce fonte di diritto che invece deve applicare al caso concreto.

Le sentenze che, non rispettando le predette regole, pongano norme generali ed astratte in nessun modo conseguenziali all’applicazione delle regole legali interpretative, danno vita al fenomeno della cd. scissione tra soggettività ed oggettività dell’atto.

Nella teoria delle pubbliche funzioni oggettività e soggettività dell’atto pubblico debbono normalmente coesistere e coincidere.

L’atto normativo deve essere posto in essere dalla figura soggettiva dell’ordinamento cui la normazione sulla normazione attribuisca il potere di introdurre nell’ordinamento norme giuridiche generali ed astratte, idonee ad abrogare e/o modificare le norme preesistenti collocate nel medesimo grado (lex posterior derogat priori ) , ed a resistere alla forza modificatrice e/o abrogatrice di norme poste in essere , si, posteriormente, ma da figure soggettive collocate in grado inferiore nell’organigramma dei pubblici poteri ( lex superior per posteriorem legem inferiorem non derogatur).

L’atto giurisdizionale deve provenire dalla figura soggettiva cui la normazione sulla organizzazione delle pubbliche funzioni attribuisca il potere di emettere atti diretti ad applicare la fattispecie normativa astratta, preesistente ed introdotta dalle figure soggettive titolari della potestà normativa, ad una fattispecie concreta sottoposta al vaglio dall’interessato o comunque da soggetto a tanto legittimato.

Qualora invece l’atto sia emesso , si, da un organo giurisdizionale, ma introduca norme giuridiche in nessun modo riconducibili all’interpretazione di una fonte preesistente di diritto , dirette a modificare le norme giuridiche legalmente esistenti o ad introdurne altre in difformità, si assiste alla cd scissione tra soggettività ed oggettività dell’atto: l’atto è solo soggettivamente giurisdizionale, ma oggettivamente normativo, rappresentando l’esercizio di un potere, quello normativo, che gli artt.70, 76 e 77 della Costituzione della Repubblica Italiana del 01 gennaio 1948 e, ancor prima, l’art. 3 dello Statuto del Regno promulgato in Torino il 04 marzo 1848 dal Re di Sardegna, attribuiscono espressamente ad altri organi dello Stato.

La scissione tra soggettività ed oggettività dell’atto , per dar vita ad atti leciti, deve essere prevista dalla legge o, ancor meglio, dalla c.d. normazione fondamentale sulla normazione.

Difetta radicalmente nella normazione fondamentale sulla normazione, tanto nel vigente ordinamento repubblicano quanto in quello instaurato a seguito della promulgazione dello Statuto del Regno il 04 marzo 1848, una norma costituzionale che preveda la emanazione di atti soggettivamente appartenenti all’ Ordine Giudiziario ma oggettivamente normativi e, pertanto, muniti di forma modificatrice e/o abrogatrice delle norme poste dalle leggi e dagli atti aventi forza di legge; eventualità esclusa anzi espressamente proprio dall’art. 65 del R.D. n. 12 del 30 gennaio 1941 col suo riferimento tecnico-giuridico alla “interpretazione” del diritto preesistente , e, successivamente, dagli artt. 70, 76, 77, 101, 107 della Costituzione Repubblicana.

Gli atti soggettivamente giurisdizionali che dovessero in tal senso trasformarsi in atti oggettivamente normativi, sconfinando dai limiti posti dal procedimento di interpretazione della legge, darebbero vita ad un fenomeno di esercizio di una pubblica funzione legislativa da parte di un soggetto istituzionale che ne è privo e, come tali, sarebbero affetti da carenza di potere in astratto , in quanto l’atto giurisdizionale produce gli effetti propri solo quando sia tale anche oggettivamente, potendo inoltre costituire illecito disciplinare per il magistrato autore.

Con sentenza n.10/2011 la Sezione Disciplinare dell’ On. Consiglio Superiore della Magistratura ha infatti sancito la rilevanza disciplinare di provvedimenti emessi dal giudice al fuori di esplicite previsioni normative. Nell’infliggere la sanzione la Sezione Disciplinare osservava che il provvedimento di cui si discuteva:

“……è ammesso solo nei casi previsti dalla legge e quindi la adozione con un provvedimento , di questa modalità di pubblicità per un verso non è consentito dalla legge, e per un altro verso comporta l’inosservanza delle norme regolamentari sul servizio giudiziario” (pagina 6 ultimo capoverso sentenza n.10/2011 Sezione Disciplinare del CSM).

Ne consegue che per la Sezione Disciplinare del CSM l’illecito ricorre non solo quando l’atto emesso è espressamente vietato dalla legge, ma anche quando l’atto è emesso al di fuori delle esplicite previsioni normative pur in difetto di un espresso divieto e/o proibizione (“……è ammesso solo nei casi previsti dalla legge….”), onde una sentenza che, sconfinando dal procedimento di interpretazione della legge legalmente delineato negli artt. 12 e ss della preleggi al codice civile del 1942 assuma le vesti della cd giurisprudenza legislativa, non sfuggirebbe alla sanzione disciplinare inflitta dalla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura con la sentenza n. 10/2011 in forza del principio di diritto e della previsione astratta incriminatrice ivi affermati, rappresentando l’esercizio di una funzione legislativa in senso sostanziale in quanto diretta a modificare le norme giuridiche poste in essere da leggi o altri atti aventi forza di legge ai sensi degli artt. 70, 76 e 77 della Costituzione.

Inoltre la predetta sentenza, rappresentando l’esercizio di una potestà non attribuita all’organo giurisdizionale, darebbe vita alla c.d. carenza di potere in astratto o incompetenza assoluta.

Le predette sentenze, prive della “oggettività” giurisdizionale, sono riconducibili ad altra tipologia di atti giuridici e, segnatamente, agli atti della c.d. iniziativa legislativa, colla quale prende l’avvio nel mondo della fenomenologia giuridica la creazione di una determinata disciplina di fattispecie ritenute rilevanti mediante la predisposizione di norme generali ed astratte.

In tal senso l’art. 71 della Costituzione della Repubblica Italiana dispone: “L’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il Popolo esercita l’iniziativa delle leggi mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli.”

Come fatto palese dalla semplice lettura della norma, il Potere Costituente, massima espressione della concentrazione del potere, ha minuziosamente elencato i soggetti giuridici ai quali è consentito proporre nuove leggi o la modifica o l’abrogazione di quelle esistenti, e così facendo nessuna menzione ha fatto delle Autorità Giudiziarie, nemmeno di quelle collocate al vertice della struttura piramidale dell’ ordinamento.

E v’è di più: il predetto art. 71 della Costituzione ha istituito la “riserva di legge costituzionale” per ampliare la platea dei soggetti legittimati a proporre modifiche delle leggi e degli atti aventi forza ed efficacia di legge: occorre così una Legge approvata secondo il procedimento dettato dall’ art. 138 della Costituzione per attribuire a soggetti diversi da quelli elencati nell’ art. 71 della Costituzione il potere di iniziativa legislativa, non essendo sufficiente la legge ordinaria approvata secondo il procedimento di cui agli artt. 72, 73 e 74 della Costituzione.

Si comprendono ora i profili di illegittimità, se non di illiceità, di determinate tipologie di sentenze appartenenti alla scuola del c.d. diritto libero votato ad attingere la giuridicità direttamente dalla fonte individuata nelle esigenze sociali via via manifestatesi nel divenire della storia, se non ad interpretare entità metagiuridiche quale fu con l’art. 2 del Codice Germanico del 1935 il c.d. “sano sentimento del popolo”.

Si comprendono ora i profili di illegittimità, se non di autentica illiceità, di talune versioni della c.d. costituzione materiale, l’araba fenice del mondo del diritto, priva di riconoscimento normativo e suscettibile di celare fatti vietati dalle norme supreme dell’ordinamento ed idonei ad attentare al disegno dei pubblici poteri voluto dalla Carta Fondamentale della Repubblica.

Ed infine non può non rilevarsi come non sembrano presenti nei lavori preparatori svolti dall’ Assemblea Costituente passi salienti in cui si sia manifestata anche come mera ipotesi di studio la possibilità di conferire alla Autorità Giudiziaria il potere di modificare le leggi o di introdurne delle nuove.

Tribunale di Taranto, sezione seconda, sentenza del 23.9.2020 (Giudice A. Munno)

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