L’appello va redatto come una “proposta” di sentenza

Va ritenuto che l’art. 342 c.p.c. abbia impostato l’impugnazione come una sorta di “proposta” di sentenza che, muovendo dalle parti contestate, individua e scandisce il diverso schema motivazionale, in fatto e in diritto, che conduce al nuovo contenuto decisorio. Non risponde quindi alle indicazioni della norma – in quanto non consente di discernere né il contenuto decisionale concretamente oggetto d’impugnazione, né le ragioni della contestazione, né il diverso schema motivazionale che dovrebbe coerentemente sorreggere la diversa decisione, con la conseguenza che va dichiarato inammissibile – l’atto di appello che: a) non riporta in alcuna parte il dispositivo e/o le singole statuizioni impugnate; b) non indica in alcuna parte quali siano le domande formulate in primo grado dall’attore; c) non riproduce né espone l’iter motivazionale seguito in fatto e in diritto dal primo giudice, limitandosi ad inserire nel proprio percorso argomentativo alcune estrapolazioni che ulteriori commenti evidenziano non essere esaustive; d) espone le censure in termini di interlocuzione rispetto alle difese svolte in primo grado dalla controparte senza alcun riferimento alla loro “rilevanza ai fini della decisione impugnata”; e) evidenzia profili fattuali senza indicare se e quale rilievo gli stessi dovessero avere in sede decisoria; f) nulla espone rispetto ai danni di cui lamenta il mancato risarcimento.

 

Tribunale di Monza, sentenza del 1.9.2016, n. 2351

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